SCENE MIGRANTI

Diario di bordo di Franco Ungaro

Nelle giornate di cielo limpido e azzurro, in quel gioco miracoloso di riflessi e rimbalzi fra luce mediterranea e vento di tramontana, lo sfondo montagnoso dell’Albania spruzzato qui e là da ciuffi di neve si staglia sulle acque dell’Adriatico e tutto ci appare di una prossimità sorprendente. Vicina, troppo vicina è l’Albania, vista dalle coste del Salento.

Di viaggi da quelle parti ne ho fatti tanti negli ultimi anni, tutti dopo la caduta del regime. Ho conosciuto le città con il loro fascino e i loro obbrobri urbanistici, da Tirana a Korca, da Saranda a Girocastro, da Berat a Scutari, da Durazzo a Valona. Ho conosciuto luoghi reali e luoghi simbolici. Il mare, le montagne, i bunker, i teatri, le pozze d’acqua gelida dell’Occhio blu, gli splendori di Butrinti e di Apollonia, l’italiano albanesizzato che tutti parlano da quelle parti, il refrain ripetuto a iosa ‘siamo uguali noi e voi’.

Dei tanti amici restano impressi i loro nomi e le loro storie, Edmond, Petrit, Esmeralda, Adonis, Diana, Ciko, Ilir, Mimoza, Alfred, molti di loro conosciuti tra il 2004 e il 2005 grazie al progetto di cooperazione Ar.Co lanciato dalla Regione Puglia. Resta ancora attuale e interessante il diario di viaggio scritto e pubblicato in quegli anni da Loredana De Vitis, Welcome in Albània.

Ma prima ancora nel 2001 c’erano state le pioneristiche e coraggiose incursioni dell’Ente Teatrale Italiano che affidava a Koreja la conduzione di laboratori teatrali a Tirana ed Elbasan. Ricordo una platea rumorosissima e festante di studenti dell’Accademia di Arte Drammatica in occasione del finale di laboratorio condotto da Ippolito Chiarello su Personaggi di Pirandello. Cominciavano a rompersi barriere fisiche e culturali, si aprivano spazi di collaborazione artistica e culturale e per me, finalmente, la possibilità di attraversare quel corridoio di mare tanto desiderato e sempre negato.

E’ così che gli albanesi ho cominciato a conoscerli dapprima in Albania, anche se il rammarico più grande della mia vita è rimasto quello di non aver potuto conoscere l’Albania di Enver Hoxha, quel mondo a parte sconosciuto, misterioso e irraggiungibile.

Diffidente com’ero della propaganda comunista e della propaganda anti-comunista, il mio desiderio era soprattutto quello di vedere con i miei occhi come vivessero gli albanesi , di conoscere più da vicino il loro immaginario e le loro utopie. L’Albania, un vero e proprio miraggio.

Poi nel 1991 venne il crollo definitivo del regime e, subito dopo, la lunga stagione degli sbarchi sulle nostre coste, dei gommoni, dei morti in mare ad anticipare e favorire nel bene e nel male l’incontro e la conoscenza reciproca tra albanesi, salentini e italiani. Una vicinanza che pur tra odi razziali e sentimenti solidaristici, tra senso di minaccia incombente e slanci umanitari provava faticosamente a diventare condivisione di un destino e una eredità comune.

Una lunga onda che sollevò dal fondo delle nostre coscienze tanti difetti e tante virtù, tanti pregiudizi e tante qualità. Degli uni e degli altri.

Ora è arrivato il momento di Migrarti e di Scene Migranti , il progetto che ha vinto il bando 2017 del Ministero Beni e Attività Culturali, e confesso che se non ci fosse stato questo progetto la mia conoscenza ad oggi degli albanesi fatta in Albania sarebbe rimasta di gran lunga superiore alla conoscenza che ho degli albanesi che vivono e risiedono a Lecce. Da dieci, quindici, venti anni ci sono in città e nel mio quartiere persone delle quali ho saputo ben poco o niente. Senza Migrarti, senza Scene Migranti, senza il laboratorio che abbiamo tenuto con queste persone, senza lo spettacolo Italia Albania A/R che abbiamo realizzato con loro, non avrei conosciuto nulla delle loro vite e delle loro storie di vita, e questo peregrinare fra le due sponde poteva per me malamente concludersi come un normale e scontato tour turistico velato da qualche pretesa culturale e/o filantropica.

Raccontare allora dell’inizio di Scene Migranti vuol dire raccontare innanzitutto di un incontro speciale con due artisti albanesi davvero speciali, raccontare di quando tre anni fa Roland Sejko e Adrian Paci mi invitarono sul loro set cinematografico, gli interni di Palazzo Rollo a Lecce, per girare la prima scena di un loro film, di cui non si conosceva ancora il titolo. Mi fecero leggere davanti alla camera da presa una lettera, una delle lettere che avevano recuperato dentro i magazzini dell’Archivio di Stato albanese in due sacchetti di iuta segnati con una semplice etichetta: “Corrispondenza dei cittadini italiani in Albania”. Erano lettere che italiani in attesa di rimpatrio spedivano a familiari e amici e viceversa, tra il 1945 e il 1946, alla fine della seconda guerra mondiale, lettere mai giunte a destinazione…

Leggere quella lettera è stato come un tuffo all’indietro, in quel mondo a parte sconosciuto, in quel miraggio misterioso e irraggiungibile. Un pezzo importante di storia spesso rimosso: ventiquattromila persone tra ex soldati, operai, ingegneri, medici, commercianti, giunti durante l’occupazione italiana dell’Albania, e che, a guerra finita, con Enver Hoxha al potere, restano intrappolati e non possono tornare a

casa, pedine di scambio in un gioco politico che durerà fino al 1949, quando Italia e Albania instaureranno rapporti diplomatici.

Sono emozionato nel leggere davanti alla camera da presa quella lettera, il mio pensiero va a mio zio disperso nella campagna di Russia, va ai racconti di guerra di mio padre. Ma l’emozione è ancora più forte in una calda serata di luglio dell’anno scorso quando nell’ambito del festival Cinema del reale quel progetto di film, dopo un lungo travaglio produttivo, si mostra al pubblico nella sua forma e con il suo titolo definitivo, Sue proprie mani . Per tutta la durata del film, mi chiedo quanto il film fosse italiano e quanto albanese e quanto il nomadismo delle nostre origini ed esistenze segnasse la nostra comune eredità culturale.

Con i testi di quelle lettere Roland e Adrian ricostruiscono fatti e snodi storici, legami e rapporti che da sempre tengono uniti e vicini due popoli, due identità, due culture. Lo fanno trasformando documenti storici in dispositivi dell’animo umano, con una fortissima densità e aderenza emotiva, facendoci percepire gli stessi sentimenti, le stesse passioni, le stesse aspettative di chi quelle lettere le scriveva. Girato nella vecchia villa del re Zog a Durazzo, il film riprende visi, mani, oggetti, immagini che scorrono in un unico piano-sequenza. Scorrono come possono scorrere i ricordi, implacabili e irremovibili nella loro fluida lentezza e ripetizione. Scorrono come lunghi silenzi fra parole che chiedono amore, perdono, aiuto. Scorrono come possono scorrere i momenti di smarrimento di chi è costretto a vivere lontano dai propri affetti, scorrono con le interruzioni di un pianto trattenuto in gola, con l’assurdità di un tempo che non passa mai, con l’insensatezza di domande che non trovano risposte e di lettere che giacciono nei bunker del potere politico e militare. Immagini e voci che ci allontanano dal tempo storico portandoci in una dimensione spazio-temporale universale, in luoghi di sradicamenti e di nomadismi, in un tempo che è il tempo della incomunicabilità e soprattutto delle vite in transito.

Nel film sono state eliminate le scene girate nel Palazzo Rollo a Lecce ma due parole su tutte, memoria e identità, irrompono nella mia mente a chiudere definitivamente il senso del mio peregrinare tra una sponda e l’altra dell’Albania, ad anticipare il senso e l’orizzonte tematico del progetto Scene Migranti.

Memoria e identità: diventa questo il tema che la comunità degli albanesi residenti a Lecce, alcuni giovani allievi dell’Accademia Mediterranea dell’Attore, il compositore Admir Skhurtaj, l’attore e regista Ippolito Chiarello, il regista Tonio De Nitto, l’attrice Chiara De Pascalis e la coreografa Maristella Martella decidono di affrontare nel laboratorio interdisciplinare che da maggio a giugno teniamo presso le Manifatture Knos di Lecce. Poche discussioni, pochi incontri per pianificare le attività. Il percorso è tracciato, non c’è molto tempo. Adrian Paci sarà presente alla serata inaugurale del progetto dentro la sala affollata del Cinelab Attilio Bertolucci a Lecce intervistato da Luca Bandirali e Lorenzo Madaro, e per lui è l’occasione di incontrare vecchi e nuovi amici albanesi che vivono a Lecce e condividere con loro un bicchierino di raki, rigorosamente autentico e autoctono.

C’è poco tempo anche per Adrian Paci, siamo a ridosso della settimana Santa e di lì a poco deve inaugurare, invitato dal Vescovo, una sua mostra bi-personale a Trapani al Museo San Rocco Home to go e Ferdinand Paci Adrian, ovvero il padre Ferdinand e il figlio Adrian uniti dall’amore per l’arte.

Un po’ di timidezza e reverenza mi spingono a non evocare il nome del Vescovo, che, guarda caso, è stato un carissimo mio compagno di studi negli anni dell’adolescenza e dell’Università. Adrian parte da Lecce consigliandomi di andare a visitare a Scutari, sua città natale, il museo Marubi.

‘ Ci devi andare, assolutamente, troverai le immagini scattate tra gli anni trenta e gli anni quaranta dai fotografi albanesi di origini italiane Geg e Kel Marubi, ripercorrono una parte della storia del paese, dal punto di vista sociale e politico’. Fotografi albanesi di origini italiane?

Albanesi e italiani, dunque, due popoli, due identità. Con o senza punto interrogativo?

Al primo incontro di progettazione ritrovo tutte le guide che condurranno il laboratorio interdisciplinare (Ippolito, Tonio, Chiara, Admir, Maristella oltre ai responsabili di progetto Osvaldo e Luciana), prepariamo il calendario degli incontri e dei sopralluoghi per la sede del laboratorio.

C’è Bledar Torozi, guida carismatica dell’Associazione Vellazerimi che raccoglie la maggior parte degli albanesi a Lecce e tiene i contatti con loro. Ci affidiamo a lui per il reclutamento dei partecipanti al laboratorio.

‘Ci piacerebbe lavorare con persone di età e sesso differente’, è l’unica nostra raccomandazione.

Bledar risponde con quel sorriso leggermente enigmatico che vuol dire ‘fidatevi di me’ oppure ‘non sono il solito albanese che immaginate’.

Nel laboratorio troveremo attori non professionisti, neofiti, artisti e musicisti albanesi, adulti e bambini, altri mai cimentatisi con l’arte e lo spettacolo. Quasi trenta all’inizio, che diventeranno venti alla fine del percorso. Grazie alla presenza di diverse generazioni Scene Migranti si è nutrito di visioni diverse, raccontandoci storie diverse e i diversi modi di essere albanesi in Italia.

Comincia così il laboratorio interdisciplinare, tra un sorriso, un pizzico di pudore e piccola diffidenza reciproca, le incognite di ogni percorso di ricerca e tanta voglia di mettersi all’opera. Circa venti sessioni di lavoro in due mesi con le guide che si alternano fra di loro, con Ippolito e Tonio che occupano la prua di questa nave, con Francesca e Ivana ad accompagnare, assistere e motivare il gruppo.

Una nave, un equipaggio e dei naviganti che cominciano un nuovo viaggio dentro una nuova e diversa consapevolezza del proprio stare al mondo e dentro i linguaggi del teatro, della musica e della danza. Tra memoria e identità, appunto.

Identità anzi Identitas è anche il tema di Mundi, un piccolo ma interessantissimo festival culturale promosso dalla Fondazione Salvatore Calabrese di Campi Salentina e che quest’anno si tiene al Castello Carlo V di Lecce con incontri, degustazioni, spettacoli. Serena Palazzo, la coordinatrice del festival, mi ha contattato e vuole inserire la performance finale di Scene Migranti nel programma di Mundi. Alla nostra prima riunione sembriamo tutti d’accordo e felici per la proposta. La accettiamo, anche se non mancano le riserve e le preoccupazioni sull’esito finale.

C’è grande partecipazione il primo giorno di laboratorio e non fosse per i diversi accenti linguistici si farebbe fatica a distinguere albanesi e salentini. Si chiamano Bledar Torozi, Jessica Ferrunaj, Melj Hajderaj, Egestina Le Vani, Rovena Hajderaj, Ermelinda Bircaj, Andrea Ortese, Teresa Benni, Isabel Capone, Gazmend Tota, Alma Kraja, Sevim Kraja, Pius Joe, Collins Chukumma, Nikol Ciullo, Oraiso Peter, Aurora Moriseni, Giulia Moriseni, Mariklen Dafa, Qamil Capone, Dario De Mitry, Angelica Piccinni, Angelica Di Pace, Diego Perrone.

Ci si dispone in cerchio per le autopresentazioni e gli esercizi preliminari di rito. La sera della performance finale alcuni di loro si presenteranno in questo modo:

  • Sono Bledar Torozi e sono nato il 17 maggio 1964 a Tirana e vivo a Campi Salentina. Sono su un’isola sperduta e la mia prima occupazione è pensare. Vorrei creare una città e mettere all’entrata di questa città il cartello SOLO PER EXTRA.
  • Sono Dario De Mitry e sono nato il 7 novembre 1977 a Lecce. Vorrei vivere su una barca a vela e andare via.
  • Mi chiamo Jessica Ferrunaj e sono nata il 24 aprile 2003 a Galatina e vivo a Lecce. Il luogo dove mi piace rifugiarmi è la mia camera. Magari se potessi avere un cavallo uscirei da quella stanza.
  • Mi chiamo Giulia Piccinni e sono nata il 20 dicembre 1993 a Walenstadt, Germania. Novaglie è il mio nido, una baia sull’adriatico verso Santa Maria di Leuca. Il viaggio, il mondo, il canto, i miei sogni
  • Sono Meli Hajderaj e sono nata il 12 dicembre 1968 a Ballsh in Albania. Il mio sguardo segue sempre il sole, il mare e lo trasporta il vento. Cerco solo l’incontro con la natura e con le belle persone. Sono generosa e il mio unico desiderio è aiutare.
  • Sono Angelica di Pace e sono nata il 3 agosto 1992 a Taranto. Adesso sono esattamente dove vorrei essere, di fronte a un pubblico che mi ascolta. Ho sempre sognato di potermi teletrasportare e se lo potessi fare mi lancerei in volo
  • Mi chiamo Egestina Levani e sono nata il 30 dicembre 1981 a Kucove in Albania. Vivo in questa città piena di luce e di sud e da qui vorrei raggiungere il mondo. Voglio volare, trovare l’anima gemella, vedere felici i miei figli e ritrovare quella famiglia che non c’è più.
  • Sono Diego Perrone e sono nato il 2 aprile 1976 a Lecce. Mi trovo tra due mari, alla periferia del mondo e vorrei andare il più lontano possibile, ma vicino al mare.
  • Mi chiamo Rovena Hajderaj e sono nata l’11 settembre 1976 a Ballsh in Albania. Vorrei stare sempre dove posso essere felice e dove poter sempre cantare.
  • Sono Andrea Ortese e sono nato il 27 giugno 1975 a Lecce. Abito una terra che amo e che odio e vorrei partire per l’America. Sono un sognatore. Fatemi cantare.
  • Mi chiamo Ermelinda Bircaj e sono nata il 6 gennaio 1982 a Valona, Albania. Io abito il mondo perché sono una particella nell’aria. Ho paura del mare di notte e vorrei essere invisibile.
  • Mi chiamo Teresa Benni e sono nata il 6 maggio del 2009 a Bologna. Il mio nido è il mare e vorrei imparare a volare, magari usando i miei lunghi capelli e guardare il mondo dall’alto.
  • Sono Gazmend Tota e sono nato il 27 settembre del 1992 a kukes albania. sono a campi e vorrei andare in spagna per trovare l’amore.
  • Sono Isabel Capone e sono nata il 28 maggio del 2009 a Lecce. La cosa più bella che ho è il sorriso e mi piacerebbe avere i super poteri di Lady Bug e di Gufetta.
  • Mi chiamo Thomas Qamil Capone e sono nato l’1 febbraio 2012 a Lecce. So scrivere bene e voglio diventare un pilota e lanciarmi con il paracadute.
  • Mi chiamo Elena Ugenti e sono nata il 26 febbraio 1997. Il mio corpo è qui, in questa città, ma il mio cuore corre sulle terre bretoni. Sono capace di trovare il lato negativo in ogni cosa, ma non sono pessimista.

    Le prime due, tre settimane del laboratorio si va avanti a lavorare sulla consapevolezza di sé, degli altri, del tempo e dello spazio con camminate, stop e abbracci, contatti e attenzione, ritmo, canzoni e giochi. Si lavora dentro le Manifatture Knos con la calura estiva che quest’anno incombe in ogni angolo e tanto tanto sudore. Nel gruppo ci sono casalinghe, madri, badanti, camerieri, studenti, operai, architetti; ci sono i loro bambini, dedicano il tempo serale al laboratorio, c’è qualcuno che torna stanco dal lavoro, qualcun altro che arriverà stanco al lavoro.

    C’è comunque fretta di capire e far capire cos’è questa benedetta identità albanese, cosa vuol dire praticamente e come esprimerla con il teatro, la musica e la danza.

    Ippolito dedica tanta energia a indagare le fiabe, le ricette, le canzoni preferite, il senso di appartenenza, il culto e il significato della loro e della nostra bandiera e degli inni nazionali, le feste e i matrimoni, la famiglia, i desideri di chi vuole lasciare l’Albania e di chi vuole ritornarci, la religione, le religioni e la loro coesistenza . Dedica tempo ai racconti , chiedendo a ognuno di regalare una storia legata alla propria vita personale o a quella dell’Albania. Tutti si buttano dentro costruendo attorno alle loro suggestioni e ispirazioni un’azione performativa o una coreografia.

Ci sono due parole che rimbalzano nella sala, besa e kanun.

Besa vuol dire ‘dare la parola”, “fare una promessa”, vuol dire soprattutto “dare la vita, sacrificare la cosa più cara per mantenerla” ed è la parola chiave del kanun, il codice tradizionale di comportamento non scritto, una sorta di giuramento che tutti gli albanesi conoscono e vorrebbero rispettare.

Si comincia allora ad esplorare l’universo identitario albanese con delle improvvisazioni , degli esercizi con domande e risposte che porteranno a creare dei dialoghi e confluiranno nel copione dello spettacolo finale. Un lavoro che porta alla costruzione di una drammaturgia condivisa e partecipata realizzata dai partecipanti al laboratorio.

Come sottolinea Osvaldo Piliego, responsabile del progetto Scene Migranti, ‘si è partiti dal racconto, dalla raccolta di storie personali e non, di verità e credenza popolare, dell’intimo e dell’universale. Queste confidenze sono state poi teatralizzate, sono diventate delle video installazioni, delle coreografie. Hanno assunto forme diverse che come tasselli hanno composto le tappe di un nuovo viaggio’.

Il dialogo fra Dario e Jessica tocca diversi registri emotivi, dalla sfida al dispetto, dalla compassione all’ironia. Nella performance finale i due interpreteranno sulla scena due falsi poeti davanti a due leggii che si combattono, si fa per dire, a suon di rivendicazioni identitarie:

Dario SIAMO
Jessica SIETE
Dario allegro andante Jessica un pò incazzato Dario con brio
Jessica adagio

si danno la mano, un inchino, un respiro…

Jessica noi siamo persone profonde e con un vissuto difficile Dario noi siamo generosi
Jessica noi siamo generosi
Dario voi siete testardi

Jessica e voi siete falsi
Dario vivete con mille tabù
Jessica e voi siete incoerenti
Dario siamo buongustai
Jessica noi siamo ospitali
Dario siete ritardatari
Jessica meno male che non siete tutti uguali e qualcuno gentile tra di voi esiste Dario siete troppo sanguigni
Jessica Noi siamo patrioti
Dario non quelli che vivono qui
Jessica noi siamo nazionalisti
Dario troppo nazionalisti
Jessica e la nostra è una terra bellissima
Dario noi viviamo in una terra bellissima
Jessica noi siamo sinceri
Dario siete arrivisti e ambiziosi
Jessica siete un pò razzisti
Dario no… noi siamo socievoli con tutti
Jessica siete diversi
Dario diversi?
Jessica Noi siamo diretti
Dario siete poco ligi alle regole
Jessica siamo determinati e affamati di conoscenza
Dario Noi siamo romantici
Jessica Noi sorridiamo sempre
Dario siete senza romanticismo
Jessica siamo gentili
Dario siete gelosi
Jessica siete crudeli e mettete i vostri vecchi nelle case di riposo
Dario siete malamente orgogliosi
Jessica siete machiavellici, prevenuti, indecisi, ipocriti, chiacchieroni e mammoni Dario siamo dolci
Jessica siete accondiscendenti, lagnosi, menefreghisti e tirchi.
Dario IO SONO ITALIANO
Jessica ANCH’IO

Gli risponde con una smorfia a un suo vocalizzo e conquista il proscenio

Jessica

SI sono italiana
Io sono nata qui in Italia a Galatina e ho 14 anni.
Mia madre è albanese e mio padre…pure…
Ho saputo di avere sangue albanese quando ho cominciato a parlare e ascoltando i miei nonni parlare una lingua strana, che non era l’italiano, ma nemmeno inglese… ho chiesto a mia madre spiegazioni…
Lei mi ha detto che era la lingua albanese e che io avevo origini albanesi.
Poi mi sono ricordata che effettivamente vedevo già da piccola film e cartoni in albanese con i sottotitoli in italiano e a volte con i sottotitoli albanesi quando si parlava in italiano. Ma da piccolina non avevo fatto caso. Per me era una cosa normale.
Anche i nonni senza accorgermi mi insegnavano ogni giorno parole albanesi.
Oggi parlo perfettamente l’albanese e l’ho imparato grazie ai nonni e a mia madre.

Dario

Cosa hai pensato quando hai saputo di essere albanese?

Jessica

Non mi ricordo cosa ho pensato nel sapere di essere albanese…..
Sono andata la prima volta in Albania a 13 anni, l’anno scorso, a Valona. Era il mio primo viaggio con il traghetto. Avevo paura del mare e della navigazione ed ero emozionata all’idea di toccare la terra albanese per la prima volta. Appena sono arrivata oltre alla bellezza del paesaggio con il porto e tante casette, la cosa che mi ha colpito di più è la semplicità con cui gli albanesi entrano in relazione e in comunicazione tra di loro, anche se si sono appena conosciuti. La cosa più fastidiosa dell’Albania sono gli uomini che vogliono conquistare una donna. Sono appiccicosi, fastidiosi e non ti lasciano respirare. Poi se la conquistano, spesso si stancano e passano avanti. Quindi, forse, mi sposerò, se mi sposo, un italiano… forse
La cosa più bella dell’essere albanese per prima cosa è avere un’altra lingua che mi appartiene.

Dario Cosa rispondi quando ti chiedono di che nazionalità sei?
Jessica albanese.
Dario Cosa farai da grande? Dove vivrai? In Italia? In Albania?
Jessica Non lo so. Sicuramente spero di poter viaggiare senza pensare che ci siano confini. Tutti e due ringraziano, fanno un vocalizzo e fanno l’inchino.

Quanto conti la lingua nella costruzione identitaria ce lo spiega Elena che sventola la bandiera italiana quando l’Italia gioca ai mondiali e che deve, lei di sangue e origini albanesi, imparare la sua lingua madre, l’ albanese.

Elena

Ho sempre avuto un “rapporto conflittuale” con la mia metà albanese.

Fino ai 10 anni le uniche gite in Albania servivano solo per andare in quel paesino sperduto che è la città natale di mia madre…

Da piccola poi venivo presa di mira da ragazzini razzisti che mi facevano pesare il mio sangue misto. Questi comportamenti mi ferivano e io allora nascondevo il mio essere albanese.

Poi qualcosa è cambiato dentro di me
All’improvviso, quando a dieci anni ho cominciato a esplorare l’Albania ho scoperto la sua bellezza

Sono cresciuta, ho sviluppato una mia personalità e non mi faccio influenzare. Ora l’essere una “mezzosangue” fa parte delle mie ricchezze.

Non conosco la lingua albanese
Mia madre non mi ha mai parlato in albanese
e io da piccola mi rifiutavo di impararla questa lingua che mi rendeva diversa e vulnerabile ed esposta alla derisione e all’esclusione.
e poi è una lingua con una struttura grammaticale simile al latino e per questo difficile per me.

Nonostante tutto, nonostante le mie paure di bambina e anche se molte cose non mi piacciono, adesso sento quella cultura un po’ più mia.

E gioco con la bandiera Italiana soprattutto quando ci sono i mondiali.

Un giorno Ippolito mi chiede di prestargli Il sogno italiano il romanzo di Ylljet Aliçka ispirato alla vicenda dei fratelli Popa veri precursori del grande esodo dall’Albania verso l’Italia e che si erano infilati nel cortile dell’ambasciata italiana per chiedere asilo politico e lì nel seminterrato dell’ambasciata avevano trascorso cinque anni della loro vita, dal 1986 al 1991, prima di approdare nel porto di Bari con il mercantile Vlora, insieme ad altri ventimila albanesi in fuga dal loro Paese.

Anche nel nostro laboratorio si parla tanto di viaggi, quello che ciascuno di loro ha fatto per raggiungere l’Italia, sono momenti in cui la memoria accende i sentimenti e il teatro incontra le loro vite, le vite di ciascuno di loro, ognuno vuole raccontare la sua avventura, i propri sogni, il proprio passato. E le loro narrazioni mescolano in un unico impasto memoria e identità, prosa e poesia, tragedia e commedia.

Fra di noi c’è chi è arrivato qui con la Vlora , chi con la Lirja, chi da clandestino, chi con astuti stratagemmi. Raccontare e raccontarsi diventa per loro un modo per curare le ferite dell’anima e ha ragione Gabriele Vacis, che qualche settimana prima è stato ospite dell’Accademia Mediterranea dell’Attore, quando sostiene a proposito del rapporto fra narrazione, tempo, memoria e identità attoriale che narrando si ritrova un rapporto con il tempo nel suo fluire.

‘Mi interessava’ dice ‘ produrre tempo: ero convinto che tutto il tempo non raccontato è tempo sciupato. Per questo ci volevano attori/autori consapevoli della propria presenza in alle quali er scena. Produrre tempo è sempre bello e necessario. Però adesso mi affascina veramente, veramente, veramente, ve – ra – men – te, te, te, stare dentro al tempo. Per questo ci vogliono persone reali, che sono esse stesse tempo. Da un po’ nutro un senso di disagio di fronte alla gran parte del teatro che vedo, ma anche di fronte al cinema, perché li trovo sempre troppo scritti. Trovo sempre tutto troppo scritto’.

Emma e Andrea come persone reali e come attori/attrici stanno tutto dentro il loro tempo, dentro le loro narrazioni quando interpretano le poesie scritte da Eleni Mingu Bircaj che è la madre di Emma.

Senza nome

Andrea Mare mediterraneo, cimitero senza nomi, Emma hai inghiottito milioni di anime.
Gli emigranti spezzano le tue onde.
Mare celeste noi tanto ti adoriamo

senza capire il demone che è in te. L’unico testimone il cielo. Osservaci ora per l’ultima volta, urla con il vento,

piangi con la pioggia
per noi poveri che siamo nelle braccia del mostro celeste. Uomini, donne, bambini
prendete la strada dell’emigrazione,
per i vostri miseri diritti,
lontani dall’angoscia e la miseria.
Gente innocente,
vite che si spengono come candele al vento.
Creature senza colpe,
creature sofferenti
andate su navi e scafi e gommoni
come fantasmi verso l’inferno.

Emma: bagnata dal mare Adriatico, 7 lettere
Andrea: Albania, bagnata dal mare adriatico, 6 lettere Emma: Italia

‘Vieni, stasera c’è la festa’, è la frase in codice, il segnale criptato che gli amici di Bledar si scambiano tra il 5 e 6 marzo del 1991 per ritrovarsi tutti insieme al porto di Durazzo e provare di nuovo, dopo tanti tentativi falliti, a ripartire per Brindisi e realizzare il loro ‘sogno italiano’. Sfondano cancelli e recinzioni del porto, tanti sono suoi amici di università, con i quali aveva condiviso i primi scioperi della fame e le manifestazioni di piazza contro la dittatura e avevano abbattuto la statua in marmo del dittatore.

Bledar, l’architetto di Tirana con il padre da sempre oppositore del regime, partirà con la Lirja. Sono in venticinquemila su quel mercantile e dura diciassette ore il loro viaggio. Lui preferisce raccontare la parte finale del suo viaggio quando il 7 marzo mette piede sul corso di Brindisi

Quando abbiamo messo piede nella strada principale di Brindisi abbiamo capito che il nostro sogno si era realizzato. Avevamo fame, avevamo sete, cercavamo un alimentare ma non avevamo soldi. In tasca avevo un ricordo di mio bisnonno, una medaglia antica d’argento che per me era come un portafortuna. Sono entrato in un negozio di antiquariato per vendere la medaglia-ricordo.

‘E’ interessante –mi ha detto il negoziante- posso darti 30.000 lire’. Io mi sono fatto due conti gli ho risposto che non mi interessava, era meglio tenermelo ancora. Lui ha rilanciato, prima settanta e poi cento. Ci ho pensato ancora e a lungo perché non volevo separarmi da quel ricordo, poi sono tornato e ho detto sì, gliel’ho venduto.

Ma prima di andare all’alimentare o al mercato avevo bisogno di un paio di calze; le scarpe e le calze che avevo erano bagnate, ho incontrato un giovane e gesticolando ho chiesto dove comprare un paio di calze. ‘Togli, togli , mi ha detto. Ho tolto le mie scarpe erano un paio di Adidas che avevo sempre sognato di avere, da noi era vietato vestirsi da occidentali, le avevo comprate con tanti sacrifici. E così mi hanno dato un paio di calze asciutte e mentre cercavo le mie scarpe alle quali ero legato in maniera particolare, dall’altra parte mi hanno dato due paia di scarpe una diversa

dall’altra. Io sono rimasto male perché avevo perso un simbolo, avevo fatto un grande sacrificio per comprare quelle scarpe.

Siamo entrati allora nell’alimentare e abbiamo chiesto col nostro italiano un panino, anche noi usiamo una parola simile in albanese. C’era una signora dietro il bancone che mi ha servito subito, quando ho messo la mano in tasca per pagare lei mi ha detto ‘vai vai non c’è problema’. Quel gesto della signora mi è rimasto sempre impresso, era un segno di accoglienza pura . Sono passati due anni e mezzo e ho deciso di tornare a Brindisi; ho comprato un mazzo di fiori e sono tornato all’alimentare; la signora è rimasta imbarazzata non capiva il perché e io gli ho spiegato che qualche anno prima lei mi aveva regalato dieci panini e non me li aveva fatti pagare… Molte volte le persone semplici fanno cose grandiose per noi.

Con questi e altri racconti nasce Italia/Albania A/R, la performance/installazione finale del progetto. Un percorso itinerante a tappe, fatto di sei piccoli quadri (ATTRAVERSO IL MARE – IL BUONO, IL BRUTTO E IL CATTIVO – LA MIA BANDIERA – TU ANNEGHI IO TI SPOSO – INCROCI – ALBANESI VERSUS ITALIANI). Lo spettatore si muove nella piazza d’armi del Castello Carlo V di Lecce come se arrivasse in sei diversi porti a seguire momenti di teatro, musica e danza che si ripetono in loop. Ci sono anche i ragazzi dello Sprar come traghettatori che guidano gli spettatori attraverso le varie scene dopo aver distribuito agli spettatori il biglietto del traghetto. I sei quadri raccontano frammenti di questo incontro e di questa scoperta fra albanesi e italiani , ritrovarsi e raccontare memorie e storie dei due popoli.

Il progetto Scene Migranti era partito dalle lettere mai giunte a destinazione e la performance finale finisce con le lettere e i messaggi che gli albanesi di Lecce hanno inviato o immaginato di inviare a mamme, fidanzate, parenti in Albania:

‘Siamo uguali noi e voi’ .
Una frase che mi risuona nelle orecchie da troppo tempo

sono lettere e messaggi , identiche nello stile e nel contenuto a quelle che

tanti italiani hanno mandato ai loro cari in un non lontano passato.

Mi dispiace mamma perché la barca è affondata e non sono riuscito a raggiungere l’Europa

Mi dispiace mamma perché non riuscirò a saldare il debito che avevo fatto per pagare il viaggio

Non ti rattristare se non trovano il mio corpo. Cosa potrò mai offrirti se non il peso delle spese di rimpatrio e sepoltura

Mi dispiace mamma perché s’è scatenata questa guerra ed io come tanti altri uomini sono dovuto partire

Eppure i miei sogni non erano grandi quanto quelli degli altri, lo sai, i miei sogni erano grandi quanto le medicine per il tuo colon e le spese per sistemare i tuoi denti

Mi dispiace amore mio perché sono riuscito a costruirti solo una casa fatta di fantasia una bella capanna di legno come quella come quella che vedevamo nei film, una casa povera ma lontana dai barili esplosivi dalle discriminazioni religiose e razziali dai pregiudizi dei vicini nei nostri confronti

Mi dispiace fratello mio perché non posso mandarti le 50 euro che avevo promesso di inviarti ogni mese

Mi dispiace sorella mia perché non potrò mandarti il cellulare con l’opzione wi-fi come quello delle tue amiche ricche

Mi dispiace casa mia perché non potrò più appendere il cappotto dietro la porta

Mi dispiace sommozzatori e soccorritori che cercate i naufraghi perché io non conosco il nome del mare nel quale sono finita e voi dell’ufficio rifugiati invece non preoccupatevi perché io non sarò una croce per voi

Vi ringrazio mare perché ci hai accolto senza visto e né passaporto
Vi ringrazio pesci che dividete mio corpo senza chiedervi di che religione io sia o quale sia la mia affiliazione politica

 

Lecce, Luglio 2017

 


 

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